Fagus – “Inter” (2023)

Artist: Fagus
Title: Inter
Label: Silent Future Recordings
Year: 2023
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Aurora”
2. “Neptun I”
3. “Tyche”
4. “Jenseits Des Höhenzugs”
5. “Zerfall Des Lichts”
6. “Et In Arcadia Ego”

Il vento soffia incolmabilmente distante e porta con sé rimembranze sbiadite, esperienze divenute granito nella calcificazione senza sosta di delusioni e dolori, di gioie e più spesso d’inquietudini delle quali quella natura rigorosamente matrigna e sfingea nella sua distanza sovrumana non si cura neanche lontanamente; porta con sé speranze disilluse e misere credenze umane, tutte travolte in rovina dallo scorrere impietoso della storia che ogni realtà divora nell’assenza di dio e possibile spazio materiale tra le spire di movimento delle sue più crudeli alleate, le dorate sabbie del tempo. Scontrandosi ora contro le pareti di roccia eterna, oppure sorvolando i crinali e accarezzandoli con la dolcezza mozzafiato di un rasoio perfettamente affilato, quel vento porta sempre sotto le sue ali di brezza impetuosa nomi dimenticati tra i pochi ricordati da coloro i quali, loro malgrado e a loro volta, saranno dimenticati; porta in sé l’epitome sempiterna -e proprio per questo invisibile all’occhio umano- dei veri grandi che hanno saputo manifestarsi in qualcosa d’altro, in qualche cosa che superasse la loro finitezza terrena per poter divenire immortali e una conseguente manifestazione dell’immateriale unica con quello spirare, con quel soffiare infinito, pienamente inarrestabile qualunque cosa accada di qui ad un qualsiasi centinaio o migliaio di anni a venire ancora.

Il logo della band

Nell’immobilismo ciclico e ripetitivo, disumano se considerata come effettivamente netta l’opposizione alla compiutezza lineare della vita umana, dell’eternità sotto forma del benvolere di Tiche e del suo amante il destino, o l’inevitabile, come nello spuntare di un’aurora oltre un picco montuoso innevato di quell’accecante bianco tagliente che mescola nel suo candore le fattezze sgranate di cielo e terra, di cosmo e corpo, i Fagus materializzano e rendono curiosamente concreto nei suoni di “Inter” un bagaglio esperienziale che perfora l’operato dei vicini di casa Tardigrada di “Vom Bruch Bis Zur Freiheit” (con cui viene condiviso sia produttore esecutivo al banco del mixer che i suoi Iguana Studios nascosti nel cuore della Schwarzwald) e dei Vemod, su tutti, passando il filo tramite i più riusciti momenti dei Coldworld e tutta la più soverchiante perizia atmosfericamente dilatata dei primi Drudkh sebbene questa venga filtrata dalle suggestioni sensorialmente mitteleuropee -quelle di casa- dei Lunar Aurora più gretti e rarefatti al contempo (si pensi al miracoloso 2004 tra “Zyklus” ed “A Haudiga Fluag”), chiedendo nel farlo in prestito la concreta potenza dei Walknut del caposaldo “Graveforests And Their Shadows” per poter raffinare ed esacerbare la malinconia bruciante della migliore Australia nel nuovo millennio, la quale, almeno in ambito Black Metal, ha fatto delle istanze più depressive un ponte verso la trascendenza e l’elevazione di sé, della ricerca spericolata della luce nel buio più opprimente.
In questo senso come in altri, in verità, un debutto su full-length qual è “Inter” si frappone come posizione intermedia e riassunto di una intera sensibilità, un interregno se vogliamo o un ponte, se lo si preferisce vedere e descrivere come tale, sul correre dei cui quaranta minuti spaccati di lunghezza s’instaura un rapporto sia spaziale che temporale compreso fra due distinti punti di riferimento: una vera e propria intercorrenza che è comunanza, reciprocità, interscambio florido nonostante all’ascolto la natura di un simile disco sembri risiedere nella più algida alterità, una brulla terra emotiva di nessuno.

La band

Gli aspetti pertanto più squisitamente emozionali ed affascinanti della musica dei Fagus, artefici dalle idee davvero cristalline e interessati a far parlare quindi con piena voce autorevole nient’altro che l’amalgama tanto poetico di musica e testi realizzati in una curatissima lingua madre, trovano infatti la loro grandissima forza in un doppio paradosso che può a sua volta essere ben riassunto in un parallelo a forbice: si voglia pensare alla contraddizione tra ricordo e memoria, totalmente inesistenti senza il concetto di tempo eppure proprio e solo da quest’ultimo nondimeno cancellati con il suo passare in larga misura – da un lato; l’apparente incongruenza ad absurdum, l’antinomia irriducibile tra pragmatismo e sostanza aurale nel Black Metal e invece la sua più fine, più preziosa ambizione atmosferica ed ipnotica che senza quell’abuso musicale fuori dalla grazia di ogni divinità non potrebbe nemmeno essere concepita. “Inter”, nello scorcio a volo d’uccello su di un panorama impervio che sono i suoi sei sorprendentemente diversificati brani (si confrontino, anche in predisposizioni fattuali di timing, le vicine e in ciò ancora una volta speculari “Et In Arcadia Ego” e “Zerfall Des Lichts”), è davvero il meglio di due mondi che, in fondo, sono un universo unico ma gemellare con sé stesso: dove altresì l’aggressione divampa ferina, alla inconfondibile maniera tedesca teorizzata (benché in maniera sicuramente più rumorosa e canonica) da Eternity e Graupel (si prendano e ascoltino a titolo esemplificativo, ma non solo, i rispettivi “Funeral Mass” ed “Auf Alten Wegen…”), la sottigliezza di atmosfere danzanti in bilico tra il plumbeo e l’etereo senza bisogno di alcun orpello melodico che non sia la grandezza di riff sofferenti, tormentanti (nel senso latino divenuto più comunemente comprensibile con la ripresa anglofona – excrucians), detta assoluta e suprema legge -non v’è scampo- sulle intenzioni dei Fagus lungo tutto lo scorrere del comunque sempre compattissimo disco.
Fatto di una serie di transizioni a tratti strazianti non dissimili a miraggi nel bianco accecante, di una bellezza commovente e ricolmi di melodie strabilianti da scoppiare come un fiume di lacrime pronte ad essere versate, che corrono verso la valle dello stoicismo più perentorio, il primo capitolo principale nel viaggio del quartetto bavarese è qualcosa che si percepisce essere d’importanza fin dalla sua lunga genesi che l’ha reso, dopo la prima battuta di una decade esatta precedente (l’autoprodotto EP “Urgewalt”), ricercato, sofisticato, meticoloso nella sua inafferrabile, enigmatica e laconica semplicità espressiva. Potente dunque, per come questi brani quasi scarni sono in verità pieni di un’atmosfera che suona gelida in termini ma si sente calda come fosse casa; intelligentissimo, per come la brevità inusuale per costruzione ad addizione nel sottogenere più solitamente dilatato del Metal sia invece l’arma splendida nella faretra di “Inter” (“Zerfall Des Lichts”, esempio assoluto) prima di piazzare viaggi autoconclusivi come nelle più lunghe “Et In Arcadia Ego” e “Tyche”, che dimostrano anche da sole con i loro movimenti una classe già strabiliante perché mai priva di dinamicità e muscolarità ritmica che non pregiudicano la resa e la consegna musicale tanto avvolgente ed estraniante, così filosofica e pensatrice. E forse proprio qui sta il cuore di quel parallelo, qui il paragone che dona il La a scritto ed album: in questo preciso senso il debutto dei Fagus scorre come scorre il vento sulle gote arrossate del viaggiatore che non ha bisogno di andar lontano né di uscire dal suo megacosmo interiore per ritrovarsi: scorre – e scorre lasciando sempre il segno, lasciando quel tarlo che precede la cognizione del tempo e che la supererà sopravvivendole un’altra volta ancora, perché già presente nell’antica Arcadia ma presente oggi e domani come un’allegoria dimostrante che il talento è davvero qualcosa d’innato, predestinato e per molti versi crudele: che si possiede o non si possiede; che non si esercita e che al più si finge e camuffa di fronte all’occhio (orecchio, in questo caso) che, maggiormente inesperto e ineducato, non riesce a percepirlo in guizzi e fremiti di nera grazia in musica come nella lentezza straziante di “Neptun I” e in quella solivagante di “Jenseits Des Höhenzugs”, nell’afflato squisitamente tragico dei dettagli a rintocco di “Aurora”, o nell’evolversi del suo ponte di scintillanti chitarre arpeggiate in pulito centrale che prelude ad una maestosa “Tyche” la quale, nel suo break, ha perfino lo stesso linguaggio e sublime modo di toccare le corde dell’anima devastandole come un “Hävitetty” dei Moonsorrow, senza sprecarsi in stilistici aforismi musicali Post-Black, e trovando invece la quadra tra la disperazione nordica di questi ultimi e la sempre maggiore e addirittura pratica (si perdoni l’infelicità del termine, comunque preciso) compattezza tedesca, ribadita non solo vocalmente né soltanto in quei momenti mutageni tra traccia e traccia che così eloquentemente, così ineluttabilmente ed ineludibilmente legano come vi agisse una predestinazione interna ogni secondo al resto del lavoro nel suo encomiabile complesso.

Sofocle usava del resto dire che non esiste per gli uomini un male più terribile della sorte cui non sembra possibile in alcun modo sfuggire. Eppure, e forse non così sorprendentemente in fondo, i Fagus ne abbracciano con coraggio intellettuale il preciso aspetto che è rovescio della medaglia, quello se vogliamo più coalescente e rassicurante quando a questa consapevolezza altrimenti irritante -se non direttamente annichilente- si accompagna una certa misura di abbandono e piena rassegnazione, un tepore accogliente e rilassante. E all’ascolto è infinitamente semplice comprendere dunque il perché di un simile attributo, accostato a qualcosa che molto più comunemente chiamerebbe in causa il suo vuoto contrario: “Inter”, fedele al suo premesso nome fattosi titolo d’opera, racchiude in sé una ricchezza d’intenti favolosa per un debutto, e ciononostante una sostanza, un patrimonio musicale che, benché come anticipato non sia affatto difficile da apprezzare o assimilare sulla carta da far proprio in quanto anche a suo modo punto d’incontro se non riassuntivo quantomeno abrégé, non con chiunque può fare centro. Perché occorre una predisposizione d’anima per musica simile che non si analizza con i meri mezzi con cui si acclama una banale novità, ma mediante la presenza di una certa mancanza da riempire che ha conosciuto in vita sua solo chi queste parole riesce a sentirle ancor prima di comprenderle: chi queste melodie sente di averle nel cuore da prima di averle mai ascoltate, da prima che degli autori tedeschi pronti a trascendere le barriere dello spazio e del tempo in musica tanto raffinata le avessero anche solo scritte.

“Im letzten Schein erlöschenden Lichts,
finden müde Körper tastend zueinander,
umschlingen sich in Ewigkeit,
eins zu sein, nichts zu sein…”

Matteo “Theo” Damiani

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